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L'Araldo di San Corrado autorizzati dall'Autore
Sicilia
Sikeli¿a
ىịqillīa
Dialetto cultura e tradizioni popolari
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La lotta tra avolesi e
netini per San Corrado
IL SANTO CONTESO
di
Sebastiano
Rizza
Accadeva
spesso
nei
tempi
andati
che due borghi di uno stesso abitato o due
abitati
vicini
litigassero
per
un santo.
A questa singolare costumanza
non sfuggirono i paesi di Avola e Noto, ambedue
in provincia di Siracusa, che alla
morte d’un
eremita,
Corrado, si videro l’un contro l’altro a disputarsene le
sacre spoglie.
Corrado,
siciliano non era, ma
scelse di
vivere da
queste
parti
«pir
meglu serviri
a
deu»1.
Nato
a
Piacenza
nel 1290
da nobile famiglia
della stirpe dei Confalonieri, dedicò la giovinezza alle
armi e alla
caccia in una cornice di particolare agiatezza. Sposò
una certa Eufrosina
con
la quale
condusse
una vita tranquilla. Anche
quel
giorno
del
1313
la battuta di caccia avrebbe assunto un aspetto
consueto se il giovane cavaliere non
avesse
ordinato
di
appiccare
il fuoco
ai cespugli per snidare la selvaggina.
Perdutone
il
controllo,
forse
per l’aridità
del
suolo o
per il
soffiar
del vento,
quei
focherelli si
trasformarono
in un
pauroso
incendio,
portando la
distruzione
per la campagna
e i caseggiati circostanti. Sebbene
al
rientro dalla
caccia
il cavaliere
non avesse fatto parola alcuna, l’accaduto non passò
sotto
silenzio: si
cercò
il colpevole,
che
le guardie di Galeazzo Visconti credettero d’individuare
in un
povero
contadino che
si trovava
per
caso nei
paraggi
e che,
imprigionato,
venne condannato a morte.
Fu a questo punto che il Confalonieri, preso da rimorso,
si presentò al signore di Piacenza,
confessandosi
colpevole
e
dicendosi disposto
a
risarcire i
danni
per intero.
Per lui
il
destino sembrava
ormai
compiersi:
vendette
tutti i suoi beni mentre
nel suo cuore maturò
la
decisione di
abbracciare
la
vita eremitica.
Di lì a poco anche la
moglie scelse
la vita meditativa
entrando nel monastero
francescano di Piacenza.
Storia
e
leggenda sembrano
ormai
intrecciarsi
in una
fantasmagoria
di
fatti capaci
di dare lustro alla figura dell’eremita,
e la fantasia non disdegnò d’inventare storielle curiose
che non
mancarono
e,
forse, non
mancano
tuttora di
toccare
il
cuore di
quanti
le ascoltano
con
animo
semplice.
Anche
l’addio
fra
Corrado
e
Eufrosina
si
tinse
dei
colori
dell’aneddoto.
Vediamo
così
una Eufrosina
che
chiede al
marito
quando
si sarebbero
rivisti. E
lui,
staccato ormai
dalle
cose terrene
e con lo sguardo perso nell’infinito alla ricerca
di un
segno
superiore,
rispondere
candidamente:
«Quannu l’acqua acciana nô panaru»2.
Da quel
momento
la vita
di
Corrado sarà
un
lungo
peregrinare
che lo
porterà
dapprima
a Roma
e, poi,
per
mare
alla
volta della
Sicilia. Il
nobile
netino
Andriotta
Rapi così
descrisse in
versi,
sul finire
del
Quattrocento
o agli inizi
del Cinquecento, il viaggio dell’eremita
ne La vita di lo beato Corrado3:
Et
a
Ruma
vini
a
entrarj undi
ben
si
cunfissau gran
dulgency
si
pigliau quillu
nobili
cavalerj. Tuttu
adio
lu
so
penserj et
del
restu
non
curava
a
una
barca
si
inbarcava dirro
la
via
ck
ipso
fici
In quilla
chitati
felichj
di
palermu
sindi
andau
4.
Ma
la
città felice
di
Palermo
lo
soddisferà ben
poco,
e la
sua
anima
inquieta
alla
ricerca di una pace che provenga dall’alto e insieme
dalla
fratellanza umana
gli farà volgere lo sguardo verso una nuova
mèta, per cui
cussi
misi
adimantarj undi
sunu
bona
gentj fullj
dittu
incontinentj
jn
val
di
Notu
su
virtusj
5.
Si può
immaginare
la
gioia di
Corrado
nell’apprendere
tale
notizia;
ma
i guai
per
lui non erano
finiti:
e prima
di
raggiungere
la
mèta
agognata dovette subire l’umiliazione
e il dileggio
della gente
di
Palazzolo, la
quale
non si
peritò
di fargli
del
male.
«Et
da
poy -
narra un manoscritto
del XIV secolo - frati currau vindi a la terra di
nothu, undi chi havia multi
boni
homini e
devoti
pirsuni:
Et li
gitadini
di la
terra
di nothu
appiru
grandi
consolacioni
di quistu homu ki paria di bona et honesta vita»6.
Di questo manoscritto,
dal quale citeremo
ampiamente
per
rendere più
colorito
il
racconto, e che a detta del canonico Pugliese fu redatto
subito dopo la morte
del Santo per essere conservato nell’urna che
racchiudono le sue spoglie
mortali e
utilizzato durante il processo di canonizzazione, fu
autore fra Michele Lombardo
Vetrano, compagno
di
Corrado
Confalonieri,
o P.
Eugenio Guiti7,
confessore
dello stesso,
o, forse,
parteciparono
entrambi
alla
stesura.
Di esso
per
lungo tempo
si
persero le
tracce
finché dopo
laboriose
ricerche
nel
secolo
scorso Corrado
Avolio
lo
rinvenne
insieme
ad
altri
manoscritti
di
data
posteriore in
un
grosso volume
custodito nella cattedrale di Noto. E nella terra di
Noto, ormai
conosciuto e stimato
da tutti, Corrado, per indicazione di un amico,
un
certo Joanni
di Miniu,
o
Giovanni
Mineo, si
stabilì
«a
lu locu
di li
chelli (celle)»,
nelle
vicinanze
della chiesa
di S.
Maria
del Crocifisso, dove piantò alberi e viti. Man
mano
che la
fama
di
santità si
spargeva
per le
contrade,
un numero
sempre
crescente di
devoti
lo andava
a
visitare per
rendergli
omaggio e
riceverne in cambio
la santa benedizione. Corrado, però, non si sentiva
ancora in armonia
col Creatore e col creato, per cui
un
vago
desiderio di
maggiore
solitudine
gli
attanagliava nuovamente
il cuore. Quindi, dopo
essersi
consultato con
l’amico
che lo
aveva
preso a
benvolere,
decise
di andarsene
«a
lu desertu,
luntanu
di la
terra
tri migla,
ad unu
locu
ki havia
nomu
li piczi
undi
esti una
cava, ki chi curri unu fiumi»8.
È forse in questo luogo fuori dal
mondo che la
fantasia popolare vide nel cuore di Corrado, ormai
rotto più dalle privazioni che dagli anni, perché
vecchio ancora non era, il sorgere del desiderio di
rivedere la moglie.
E Corrado riprese la via del ritorno. Giunto nei pressi
del
monastero
che
ospitava la
moglie,
si fermò
e
aspettò per
giorni,
finché
in una figura
sfuggente
portatasi
nei campi,
non
riconobbe le
sembianze
della
giovane
Eufrosina. Le si fece incontro e, con voce incerta, la
pregò di riempirgli
la fiasca dell’acqua fresca del pozzo,
perché
calda era
l’estate
e
lungo il
cammino.
Eufrosina, imbarazzata,
gli rispose di non potere esaudire il suo desiderio in
quanto l’unica secchia che possedeva le era stata
sottratta.
«Prendi la
cesta
che hai
dappresso e calala nel pozzo», le disse il
mendicante.
Eufrosina
rispose
all’invito e,
tirandola
su
stracolma, lo
dissetò e gli rifornì la fiasca. E
mentre il
mendico si
allontanava, scomparendo
nel nulla, le si affacciarono alla
mente le
parole dell’antica profezia.
Neanche in quell’angusta grotta allargata a
forza di gomiti
la vita dell’eremita
scorse serena: anzi, i travagli si susseguirono alle tentazioni
quotidiane. Fu un venerdì di un
mese non
precisato
che
una
masnada
di
briganti lo
andarono a trovare per invitarlo a pranzo. E,
distesa la tovaglia sull’erba, incominciarono
ad affettare un porcellino, offrendone al Santo che
accettava di buon grado. Dopo aver
mangiato cominciarono,
però, ad accusarlo di aver violato
la
legge del
Signore,
perché
di venerdì il
Cristo
fu
messo
in
croce;
ma
il
Santo, con la
beatitudine di sempre,
sollevato il lembo
della tovaglia, mostrò
le lische di pesce che aveva
messo da
parte, dicendo: «Voi avete
mangiato
della carne: io ho mangiato
del pesce»9.
Anche se le furberie e le tentazioni ai danni del
pover’uomo
non venivano mai
meno, Corrado
fu sempre
pronto a venire incontro ai bisogni della popolazione di
Noto, salvandola nei
momenti
più critici, come
durante la grande carestia descrittaci dall’autore
dell’antico manoscritto.
Corrado è sempre
lì a pregare e, «novello Cristo», a
moltiplicare
pani per sfamare
i suoi devoti più poveri e, soprattutto, i bambini.
«Un
tempu
essendu multa
fami,
ki
li
agenti
murianu di
fami,
et
li
homini,
et
li
donni,
et
li
pichulilli: et
multi pichulilli
andavanu a
lu
beatu
corradu, et
dichenu
ò patri
dunani
un
pocu di
pani, et
lu
beatu
corradu
dichia sì
figlu,
si
a
deu
plachi, et
dichia
stati
icza.
Et
lu
beatu corradu
si
mictia
in
oracioni, subitu
li
vinia
pani celestiali,
chaskidunu di
quilli
pichulilli
li
dava
una guastella, et
multi
homini
grandi, cussì
fu
sintutu, ki multi
chi
indivenenu
pichuli,
et
grandi,
et
altri
pirsuni, et
illu
a
tanti
fachia
la
caritati
di
jesu
xpu
cum
amuri»10.
Nonostante la
ricerca della solitudine, capitava, di tanto in tanto,
che Corrado scendesse in paese or per qualche commissione
or per qualche amico
o devoto che gli stava particolarmente
a cuore. In una di queste visite, passando «pir li
putighi di li custureri»11,
s’imbatté
in
un
suo
devoto
che,
invitatolo
a
sedere
in
bottega,
gli chiese
se
sapesse indicargli
qualche
buona
medicina
per
il suo
bimbetto
di
sette anni
che «era
ructu
di li bursi
di baxu»12.
Il sant’uomo
non si
fece
pregare due
volte:
si avvicinò
al bimbetto
e, sollevatigli
i lembi
della
vesticciola,
con il
segno della
croce
lo guarì.
Se
l’atto diede
lustro di taumaturgo
al Santo e lo pose a protettore dei
malati di
ernia, la gente di Noto si vide imposto
il
soprannome
etnico
di
nuticiani
baddusi13,
e non
solamente
per la
miriade
di erniosi
che
accorrevano
dal Santo,
in vita
e anche
dopo la
morte,
ad ogni
ricorrenza
della
sua festa,
ma
anche
o, forse,
soprattutto,
per
la
millantata
nobiltà
di
sangue cui
ogni abitante sarebbe irrimediabilmente
affetto. Passarono
gli
anni e
un
giorno
Corrado sentì
come
non
mai
il
bisogno di
confessarsi,
e il
padre Guiti,
come
di
consueto,
andò a
trovarlo.
Parlarono a lungo e alla fine il confessore gli impartì
l’assoluzione. E in
meno che non si dica e senza che il Guiti se ne
rendesse conto, l’anacoreta spirò. Era il 19 febbraio
del 1351.
«Ora
quandu
illu
fu
trapassatu
-
si
legge
nel
manoscritto
-,
li
campani
di
nothu
et
di
aula
tucti accuminsaru
assunari fortimenti,
ki
pir
tali
modu
sunavanu li
campani, ki
li
cordi
andavanu
supra li
mioli
et
non
li
putenu piglari,
et
li
popoli andavanu
arrimuri
di
quistu
miraculu,
quisti
homini di nothu
dissiru,
homu
santu
esti
trapassatu et
tutti
andavanu
a
li
chelli,
lu
bonu
homu
frati,
lu
quali havia
nomu
frati
guglelmu,
et
dissurili,
nni
cridemu
ki
tu
fussi
trapassatu: nun
su
eo,
altru
esti; quandu
auderu quisti
paroli
illi
sindi
andaru a
li
piczi
e
cursiruchi
multi agenti armati
cu
balestri: et
cum
lanzi,
et
quandu
junsiru
à
la
gructa
truvaru
lu
beatu
carradu
in
ginuchiuni;
et
quandu sunaru
li
campani
di
aula
li
agenti
di
aula
happiru
nova
di
quillu
beatu
corradu
k’era
trapassatu. E
parterusi
a
viniri
pir
piglarulu
ananti
di
quilli
di
nothu»14.
Or
quando
egli
morì,
le
campane
di
Noto
e
di
Avola
incominciarono
a
suonare
a
distesa,
tanto che
le
funi
dei
batacchi
si
libravano
sopra
le
cicogne,
senza
che
nessuno
potesse
afferrarle. Fra
la popolazione si
diffuse
gran
turbamento
per
questo
miracolo
e
si
sparse
subito
voce
che
un
uomo
santo
era
salito
in cielo:
si
pensò
a
fra
Guglielmo,
che
era
uomo
pio.
Tutti
corsero
alla
sua
dimora
e, vedendolo
in
vita,
gli
dissero:
pensavamo
che
fosti
tu
ad
esalare
l’ultimo
respiro.
Non
io,
ma
altri: rispose
il
frate.
Quando
i
presenti
udirono
queste
parole,
corsero
al
luogo
chiamato
Li
Pizzi.
Molti accorsero armati
di
balestra
o
di
lancia,
e
quando
giunsero
alla
grotta
trovarono
il
beato
Corrado
in ginocchio. Anche
gli
abitanti
di
Avola
appresero, al
suono
delle
campane,
la
notizia
del
trapasso
e subito
si
misero
in
cammino
per
arrivar
prima
dei
devoti
di
Noto
e
impossessarsi
delle
spoglie
del beato
Corrado.
Se
gli
avolesi
accorsero in
gran
numero
con
lance e
balestre,
non da
meno
fecero
i netini. Si
ingaggiò
ben
presto una
lunga
e terribile battaglia,
mentre sia
dall’una che dall’altra
parte
continuavano
a giungere
rinforzi; ma
la contesa non volgeva in favore né degli
uni né
degli
altri; anzi,
stupore
nello
stupore, le
saette tornavano a chi le lanciava senza
colpire
l’avversario.
Le
fazioni, a questo punto, capirono che il Santo non
voleva spargimento
di sangue, perché sia gli uni che gli altri erano figli
devoti. Si
concordò
allora, senza
obiezione
alcuna, che
si
scegliessero
quattro degli
uomini
più forti
e valorosi sia dell’una che dell’altra parte; anzi, i
netini si rimisero
nella propria scelta agli
avolesi,
i
quali non
poterono
non
essere contenti
in quanto vedevano così volgere le sorti
in
loro favore.
Si
provarono per
primi
gli
avolesi
a
spostare la
cassa
contenente il
corpo del
Santo:
ma
per
quanti sforzi
facessero
l’arca
non
si
mosse
d’un
sol pollice.
Quindi, fu
la
volta dei
netini:
e la
cassa
si fece
miracolosamente
leggiera
che
neanche se
ne avvidero.
Nel
Cinquecento
il sacerdote
Gerolamo
Pugliese così
solennizzò,
in
ottava rima
siciliana, l’avvenimento:
Li
quattru
Notigiani
valurusi, spinsiru
quella
cassa
allegramenti, undi
li
membra
santissimi
inclusi, eranu
di
Corradu
piu
e
clementi; e
caminaru
poi
vitturiusi, pr’andari
a
Notu
gluriusamenti, Te
Deum
laudamus
cantavanu
in
via, devoti
Salmi
e
Laudi
a
Maria
15.
A
questo punto
la
leggenda
dovrebbe aver
termine
se non
se ne
fosse
aggiunta
un’altra in
epoca
successiva: la
tradizione
avolese
vuole che,
mentre
i
netini
trasportavano
il corpo
verso la
città
di Noto,
una
lavandaia
avolese si
avvicinasse
al
corteo
chiedendo di
poter baciare
colui
che in
vita
l’aveva tanto
beneficiata.
I
netini
acconsentirono
al pio
desiderio
e la
donna, nel
baciarlo,
con un
morso
gli
strappò
l’esofago,
che consegnò
ai
sacerdoti avolesi
che lo
esposero
in un
reliquario.
Nel primo
decennio di questo secolo si interessò alla leggenda
Gaetano
Gubernale, il quale rintracciò nella curia
arcivescovile di Avola due documenti
datati 7 ottobre e 9 ottobre
1621
dai quali
risultava che la reliquia era stata donata agli avolesi
dal domenicano
Giovan
Battista da Noto, con atto pubblico rogato
dal
notaio
Giacomo
Masò
di
Siracusa
in
data primo
ottobre
1621.
Sempre
con
i
detti documenti
a
firma
del
vicario generale
Franchiscus Franchino Tacciano se ne autorizzava
l’esposizione
e la
venerazione dopo
aver
«esaminata
la domanda
et
havendo riconosciuto
la
detta
reliquia
habbiamo
provvisto come
segue: Dicimo,
commettiamo
et ordinamo…
vogliate permettere
che detta santa reliquia di detto beato Corrado si possa
exponere
sop.ti in
detta
chiesa per
essere
venerata da tutti fedeli et condursi per la terra che
noi ci
ni diamo
lauta
licenza stare
continuamente
nel loco dove è collocata detta reliquia la lampa
accesa
et cossì
exequirete
con
effetto per
quanto
la gratia
di
mosignor
illustrissimo
ni è
cara»16.
Infine, il
18 dicembre
1654,
durante la
sua
visita
pastorale,
don Giovanni
Antonio Capobianco, vescovo di Siracusa ne decretò
l’autenticità.
Fin
dal
1516 i
netini
avevano
sostituito il
loro
patrono S.
Nicola
di Bari17
con
il
beato Corrado, nonostante si fosse abbattuto su di loro
l’interdetto pontificio. Vista, però, l’insistenza con
la quale gli abitanti di Noto continuavano a venerare
l’eremita,
Leone X istituì
una commissione
presieduta
dal
vicario
generale di
Siracusa,
Giacomo
Human,
affinché esaminasse
i documenti
per
poter procedere
alla canonizzazione. L’Human
si recò a
Noto, ne
vagliò
i
documenti
e i
miracoli,
e
quindi
ordinò che
si
aprisse
l’urna. Nell’aprirla si sprigionò un tal profumo
d’incenso che
tutti i presenti ne rimasero
profondamente
colpiti,
mentre
il
corpo del
Santo non
aveva
minimamente
subito
la decomposizione.
Anche
questa
volta la
fantasia
popolare vi
ricamò
sopra:
corse, infatti,
voce che
quando il
vicario ne
ordinò
l’apertura, al
posto
delle ossa fu
trovato
del cotone.
Allora il
porporato, con
sguardo
torbo, disse
che fra
i presenti
ci doveva
essere
senz’altro un
incredulo.
I prelati, ammutoliti,
si
guardarono intorno
cercando di
scrutare
nel volto
altrui i
segni
della colpevolezza. Tutto sembrava
inspiegabile finché il vicario non ammise
di aver dubitato della santità di Corrado. L’urna fu
richiusa; e riapertala, tutti constatarono, e con stupore,
che conteneva le sacre spoglie.
Nel
1544
Corrado fu
elevato da
Paolo IV
agli onori
dell’altare. Mentre la gente di Noto, ora
come
un tempo,
continua a
onorarlo
con due grandi feste: la prima
il 19 febbraio, anniversario
della
morte,
e l’altra
l’ultima
domenica d’agosto
dal carattere prettamente
agricolo.
A questo punto
non ci rimane che
concludere con le parole del Pitrè che «la festa di S.
Corrado, come
quella di S. Agrippina, è quasi estranea alla Sicilia;
ma tutti i
siciliani sanno che in Avola e Noto si celebra con
molta solennità»18.
|
NOTE al testo
L’articolo, senza le note, è precedentemente
apparso
sul quotidiano
di Catania
La Sicilia
del 25 agosto
1985, p.
9.
1
«Per servire
meglio
Dio».
2
«Quando
l’acqua si
può tirare
con il
cestino».
3
In Corrado
Avolio, Introduzione
allo
studio del dialetto siciliano,
Palermo,
1973 [1882],
p.
110-174.
4
p. 122:
«In
Roma
entro /
dove ben
si
confessò /
grande
indulgenza si
pigliò /
quel
nobile cavaliere.
/ Solo a
Dio rivolgeva
i suoi
pensieri /
e del
resto non
si curava.
/ S’imbarcò
su una
barca / e
dirò la rotta che seguì. / In quella città illustre
/ di
Palermo
se ne
andò.
5
p. 122:
«Così chiese
/ dove
vive buona
gente /
gli fu detto
incontanente
/ in Val di Noto
son
virtuosi».
6
In Corrado
Avolio,
Canti
popolari
di
Noto,
rist. anst.
Bologna,
Forni,
1970, p.
357.
«Quindi
fra Corrado
venne alla
Terra di
Noto, dove
viveva gente
buona e
devota: i
cittadini
di Noto
ricevettero
gran conforto da quest’uomo
che sembrava
conducesse
morigerata
e onesta
vita».
7
Sembra
che un
prete con
questo
cognome
non sia
mai
esisto,
ma
che si
tratti di
un’errata
lettura
dell’abbreviazione
pviti
= previti
‘prete’.
8
«Al
deserto,
lontano tre
miglia
dalla terra
[di Noto],
in un
luogo chiamato
li Pizzi
(o
Pizzuni),
in cui
si trova
una cava
attorno
alla quale scorre
un fiume».
9
Questa storiella
da
me
raccolta
dalla viva
voce di
un’informatrice
è riporta
anche in
“Archivio
storico
per le
tradizioni popolari”,
Palermo-Torino,
Carlo
Clausen,
ott.-dic. 1894,
pp.
491-492.
10
Avolio,
Canti...,
op. cit.,
p. 374.
«Ci
fu gran
carestia,
tanto che
la gente
moriva
di fame:
uomini,
donne, bambini.
Molti bambini
si
recavano dal
Beato
Corrado e
gli
dicevano: padre,
dacci un
po’ di
pane. Il
Beato
Corrado diceva:
sì, figlio, se
a Dio
piace. E
diceva
anche; rimani
qua. Il
Beato
Corrado incominciava
a pregare
e subito
scendeva il
pane celeste.
A ogni
bambino
dava così
una
pagnotta ed
anche a
molti
adulti. Si sparse
la voce e grandi, piccoli e persone di ogni
condizione
vi si
recavano.
Egli faceva
a tanti
la carità di Gesù Cristo con amore»
11
«Per le botteghe
dei sarti».
12
«Era
affetto da ernia scrotale».
13
Da badda
‘corpo
di forma
sferica’.
14
Avolio,
Canti...,
op. cit.,
p. 376.
«Or
quando
egli
morì,
le campane
di Noto
e di
Avola incominciarono
a suonare
a distesa,
tanto che
le funi
dei batacchi si libravano sopra le cicogne, senza che
nessuno
potesse
afferrarle. Fra
la popolazione
si diffuse
gran turbamento
per
questo
miracolo
e si
sparse subito
voce che
un uomo
santo era
salito in
cielo: si
pensò a
fra
Guglielmo,
che era
uomo
pio. Tutti
corsero alla sua dimora
e, vedendolo in vita, gli dissero: pensavamo
che fosti
tu ad
esalare
l’ultimo
respiro.
Non io,
ma altri:
rispose
il frate.
Quando i
presenti
udirono queste
parole, corsero
al luogo
chiamato
Li Pizzi.
Molti
accorsero armati
di balestra
o di
lancia, e
quando
giunsero alla
grotta trovarono
il beato
Corrado
in ginocchio.
Anche gli
abitanti di Avola
appresero,
al suono delle campane,
la notizia del trapasso
e subito
si
misero
in cammino
per
arrivar prima
dei
devoti di
Noto e
impossessarsi
delle
spoglie del
beato Corrado».
15
Riportata in
Gaetano
Gubernale,
Leggenda e
storia
dell’esofago di
S. Corrado,
Noto,
Tip.
Zammit,
1914, p.
7.
«I
quattro
valorosi
netini,
/ spinsero
festosamente
la cassa,
/ che
conteneva
le sacre
spoglie I
di Corrado
pio e clemente; /
e procedettero con
animo
vittorioso
/ per giungere
a Noto
avvolti
nella gloria.
I Te
Deum laudamus
cantavano
per la
via, / devoti almi
e Laudi a Maria».
16
Gubernale, Leggenda...,
op. cit.,
p. 10.
17
Sulle
tradizioni
popolari,
specialmente
siciliane,
legate
a
S.
Nicola,
rimando
al
mio
articolo
Il
Santo
venuto
dal
mare,
in “La
Sicilia”,
quotidiano
di Catania,
del 2
luglio 1987,
p. 9,
ora anche
online
@
http://digilander.libero.it/sicilia.cultura/ilsantovenutodalmare.pdf.
18
Giuseppe Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane,
rist. anast., Palermo, Il Vespro, 1978, p. 204.
araldosancorrado.org official web site
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