|
PENITENTI,
EREMITI, CONSACRATI E DEVOTI
AL TEMPO DI SAN
FRANCESCO
<<Siamo gli uomini della Penitenza e veniamo dalla città
di Assisi».
Così rispondevano San Francesco e i suoi primi compagni a
quanti li interrogavano chi fossero e da dove venissero. È infatti una
evoluzione dell’Ordine della Penitenza l’intero movimento francescano,
poi enucleatosi nei tre ordini che hanno San Francesco per padre. Ma
mentre il gruppo dei minori e quello delle povere dame, in rapida
evoluzione, arrivarono ben presto, prima di fatto e poi di diritto, alla
dignità di ordine regolare, approvato dai sommi pontefici, un numero
incalcolabile di seguaci del
santo rimase allo stato primitivo di penitenti, pur nella varietà dei
ruoli e delle situazioni.
Gli interventi di Onorio III (1216- 1227) e di Gregorio IX
(1227- 1241) in favore dei penitenti ci rivelano quale possa essere
stata la loro posizione legale, nei primi decenni del secolo XIII.
Onorio III, nella su lettera «Significatum est nobis» del 16 dicembre
1221, diretta al vescovo di Rimini, ribadiva il principio che coloro che
«nel secolo si sono convertiti a penitenza>> non debbono essere
costretti al giuramento di portare le armi al seguito delle potestà
secolari. Il 1 dicembre 1225, lo stesso pontefice confermava per i frati
della Penitenza l’esenzione dall’interdetto .
In data imprecisata, nel 1226-27, lo stesso Onorio III
ordinava ai vescovi di proteggere i penitenti contro i magistrati che li
obbligavano a prestare giuramento militare, ad esercitare funzioni
pubbliche e a sopportare carichi più pesanti che gli altri cittadini. La
bolla è ricostruita in base alle lettere di Gregorio IX «Detestanda» e «Nimis
patenter»". Nella sua bolla «Detestanda» del 30 marzo 12285, Gregorio IX
ricor- dava infatti che già il suo predecessore Onorio III era dovuto
intervenire in favore della religione dei penitenti contro i figli di
questo secolo, cioè contro i rettori delle città e dei luoghi, che
pretendevano estorcere da essi il giuramento di fedeltà e tentavano di
imporre uffici pubblici, esazioni ed altri gravami e non permettevano
loro di erogare i frutti dei loro beni a vantaggio dei poveri.
Gregorio IX deplorava che la Detestanda invidia cercasse
di allontanare dal servizio di Cristo quelli che, abbandonate le vanità
di questo mondo, pur essendo con il corpo sulla terra, vivevano con la
mente nel cielo e, abnegando per amore di Dio i desideri del secolo, già
godevano delle imperiture eterne delizie e dei gaudii
sempiterni.· Infatti i figli
delle tenebre vi affliggono - scriveva il papa — con ingiurie più gravi
di quando non eravate difesi da tale privilegio e continuano a imporvi i
giuramenti e gli oneri più gravi e non vi permettono di erogare ai
poveri i frutti dei vostri beni. ·”Voi chiedete — continuava Gregorio IX
— di non essere costretti a fare altri giuramenti s non di pace, di fede
e di testimonianza, di non essere aggravati di oneri più degli altri
cittadini, di poter spendere i frutti dei vostri beni per cause pie.
Noi, considerando che voi siete entrati nella via della perfezione, vi
concediamo le facoltà sopraddette, in virtù della presente lettera.”
Le concessioni di papa Gregorio IX non erano una novità
per i penitenti, come non lo erano neppure le concessioni di Onorio III,
ma solamente una conferma dei privilegi spettanti da sempre ai
penitenti, già codificati dal Decretum Gratìani e, più recentemente, dal
Memorìale propositi, che, nella
sua stesura a noi pervenuta, si fa risalire agli anni 1221-1228. I
penitenti erano ritenuti persone religiose e godevano pertanto dei
privilegi di queste. La legislazione civile ed ecclesiastica concedeva
loro l’esenzione dal giuramento di fedeltà ai principi, dal portare le
armi, dal ricoprire cariche pubbliche.
Dopo due soli mesi, il 26 maggio 1228, lo stesso Gregorio
IX promulgò una seconda lettera, la <<Nimis patenter>>, che era come
un’esecutoria della precedente, nella quale ripeteva le disposizioni di
Onorio III e aggiungeva una frase che denota l’esistenza fin da allora
di una doppia classe di penitenti: ve n’erano di quelli, ed erano la
quasi totalità, che rimanevano nelle proprie case, ma ve ne erano anche
di quelli che si ritiravano altrove, negli eremi: <<i podestà e i
rettori delle città
richiamando alle loro case anche quelli che per fare penitenza si sono
ritirati in segreti recessi, impongono loro molti oneri ed esazioni,
disonorando coloro che dovrebbero essere da tutti onorati come amici di
Dio>>. La lettera era diretta a tutti i vescovi d’Italia, il che lascia
intendere che i penitenti, e fra di loro gli eremiti, erano larga- mente
diffusi in tutta la penisola.
Le bolle di Gregorio IX erano state ottenute dai penitenti
medesimi, mediante una loro supplica collettiva: <<Unde vos hurniliter
supplicastis>>. Non era il singolo ad agire, ma una <<universitas»: <<Universitati
vestrae concedimus».
I penitenti erano stati in precedenza isolati e operavano
il bene che potevano, contando sulle loro proprie forze. Come può
essersi formata ora questa coscienza unitaria si forte da coagularli
tutti in una sola «universitas», articolata in tante fraternità quante
erano le città maggiormente abitate?
Dall’XI al XIII secolo, le città italiane avevano avuto un
fortissimo incremento demografico, economico, sociale e politico,
venendo a creare dei problemi, che si fecero ben presto sentire: scontri
armati tra città e città e tra fazione e fazione della .medesima terra,
incursioni ereticali sempre più insidiose e frequenti, distinzione
sempre più accentuata tra <<maggiori>> e «minori», i quali ultimi si
trovavano bene spesso in condizioni miserevoli, avviliti com’erano dalla
fame e dalla mancanza di un’adeguata abitazione, prostrati dalle
malattie, trascinati a guerreggiare per i vari tiranni. A mali si gravi
non si poteva ovviare dai singoli. E fu per questo che, con la
benedizione dei vescovi, i più qualificati tra i penitenti, come notai,
giudici, mercanti, medici, promossero l’unione di tutti, senza
distinzione di ceto sociale, in altrettante fraternità, i <<poenitentium
collegia», collegate tra loro da un visitatore, governate da un ministro
e da un regolamen- to, che si disse «propositum>> o <<memoriale
propositi», che faceva proprio il programma di San Francesco d'Assisi:
<<Non sibi soli proficere sed et aliis prodesse>> e gli altri ideali
promossi da lui.
Nel Memoriale
propositi sono già adombrati i rimedi che i penitenti intendevano
opporre ai mali dilaganti della società del loro tempo. Incomincia con
la collocazione dei penitenti tra i poveri: i fratelli e le sorelle
vestano un panno umile, senza colore. La <<vestis pulla>> di lana grezza
senza tintura, che usavano i poveri.
Negli articoli che seguono, ai penitenti viene ordinato di
stare lontani da quelli che godono in disonesti banchetti, spettacoli e
danze, come per ricordar loro che il loro posto non è tra i ricchi ei
gaudenti, ma fra i poveri e i sofferenti. Si insiste molto sulle
astinenze ei digiuni, necessari ad estinguere il fo- mite della
concupiscenza, come si richiede ad un vero penitente, ma anche per
predisporre alla preghiera e favorire la comprensione del malessere di
cui soffre l’affamato e la disponibilità di cibo a lui destinato.
La preghiera che scandisce l’intera giornata dà una
motivazione spirituale alla carità, perché solleva il penitente verso
Dio, che è padre di tutti. Agli odi inveterati, fonte di tanti delitti,
il Memoriale viene incontro, imponendo ai penitenti la riconciliazione
col prossimo, togliendo di mezzo la ragione del contendere, con
l’obbligare a restituire il maltolto. All’atto dell’ammissione, il
penitente deve inoltre pagare alla Chiesa le decime passate e impegnarsi
per le future, per significare in maniera eloquente la sua sudditanza e
fedeltà alla Chiesa. All’atto dell’ammissione, il penitente si impegna
ad osservare le norme presenti o future che regolano la vita della
fraternità e ad eseguire le pene imposte per le trasgressioni. Non potrà
uscire dalla fraternità né essere esentato dalle sue leggi, se non per
entrare in una religione. Una piaga della società era l’eresia. Non solo
un eretico, ma anche chi lo è stato non può essere ricevuto nella
fraternità, a meno che, se è solamente sospetto, non si sia purgato
davanti al vescovo.
Viene poi la parte penale. I fratelli e le sorelle
incorreggibili siano espulsi dalla fraternità. Per le colpe commesse,
siano puniti dal visitatore. In caso di espulsione, questa venga
comunicata alle locali potestà, evidentemente perché l’espulso dalla
fraternità perdeva ogni diritto di esenzione.
Tra i penitenti, gli eremiti e gli ospedalieri erano i
maggiormente impegnati, gli uni come suscitatori di santi ideali, gli
altri come umili esecutori del precetto della carità. Per il loro stesso
genere di vita, gli uni per vocazione, gli altri per esigenze di lavoro,
conducevano vita comunitaria, regolata da leggi e norme pratiche, a
seconda dei casi.
L’eremitismo non
era un fatto nuovo nella Chiesa. In occidente, si ha memoria di eremiti
almeno fin dal secolo IV e divennero man mano sempre più numerosi,
specie in Italia e in Francia e anche in Spagna. Gli <<amici di Dio>>,
come li chiamava Gregorio IX, erano uomini per lo più di età matura,
provenienti da ogni classe sociale: sacerdoti, monaci dipendenti da un
monastero, penitenti, oblati, vedovi e sposati, nobili, intellettuali,
militari, ma anche servi, contadini, ortolani. L’eremitismo era una
vocazione, che si faceva sentire di solito dopo altri infruttuosi
tentativi. L’eremita intendeva dedicarsi a Dio in maniera esclusi- va e
in assoluta libertà e semplicità di vita, ma pur tuttavia nella rinuncia
alla propria volontà, di solito guidata da un padre spirituale e in una
spogliazione quasi totale dei beni terreni.
L’iconografia li raffigura di solito come uomini robusti,
dalla lunga barba fluente sotto una chioma incolta, vestiti di una
tunica che arriva al ginocchio, stretta ai fianchi da una cintura o da
una corda, e di un ampio mantello. Hanno in mano un lungo bastone,
talvolta un libro, una croce, un rosario.
Dopo un periodo più o meno lungo di solitudine, l’eremita
vedeva accorrere dei discepoli e doveva costituire un cenobio. Non
viveva però sempre nell’eremo, ma si trasformava spesso in pellegrino e
in missionario. L'eremitismo rappresentava il più alto grado di
perfezione e di ascesi, richiedendo particolare fortezza d’animo e di
corpo per potervi durare. Davano ospitalità agli eremiti i monti con le
loro grotte naturali e le loro sorgenti, e i boschi che offrivano
tronchi concavi di alberi secolari, capaci di accogliere una persona, e
legna in abbondanza da costruire capanne o da accendere fuochi.
Non pochi eremiti svolgevano una funzione sociale. Custodi
di cappelle o di cimiteri, o anche di sorgenti d’acqua e di fari sul
mare, campanari, traghettatori.
Il loro influsso
sociale era determinante. L’eremita godeva dell’aureola di uomo di Dio e
partecipava della venerazione ai più amati santuari da esso custoditi. A
lui ricorreva la gente per consiglio, per avere immagini sacre e
medaglie da venerare nelle proprie case. Nei luoghi più remoti, erano
gli unici rappresentanti di Dio e della Chiesa.
Nelle loro
peregrinazioni, davano l’avvio a opere di pubblica utilità, come guadi o
ponti fra le due sponde di un fiume o di un lago, pozzi, fari, ospedali
e spesso rimanevano a servizio di tali opere.
L’eremitismo non era precluso alle donne, ma in tal caso
esse erano spesso recluse o carcerate, cioè murate nella loro stessa
celluzza. Anche gli eremiti avevano una regola. I vescovi e i concili
locali, come pure i fondatori o riformatori degli eremi e dei cenobi,
davano delle norme di vita. Le regole di San Benedetto e di San Romualdo
avevano dei capitoli per essi. Non di raro, per diventare eremita,
bisognava essere vissuti a lungo in una comunità e rimanere sotto la
giurisdizione di un abate.
Occorreva essere
autorizzati da un vescovo o da un abate e tale autorizzazione,
comprovata da una patente, concedeva all’eremita la possibilità di
diventare custode di un eremo o di una cappella, l’immunità
ecclesiastica, il diritto di indossare l’abito eremitico e di chiedere
l’elemosina.
Di questa vivevano
gli eremiti, oltre che, essendo per lo più vegetariani, degli ortaggi da
essi stessi coltivati. L'investitura di un eremita si faceva con rito
liturgico, comprendente la vestizione, il cambio del nome e talvolta la
professione dei voti religiosi. Di solito egli emigrava dal suo paese di
origine, anche verso lontane contrade. Dovunque passava, dava esempio di
vita penitente ed esortava tutti a convertirsi e a fare penitenza per i
propri peccati.
Dal punto di vista legale, è possibile una `quadruplice
classificazione: gli eremiti che erano a servizio di una cappella, sotto
l’obbedienza di un ordinario; i membri di ordini eremitici con voti
pubblici; i membri di congregazioni eremitiche senza voti; gli eremiti
che vivevano in solitudine per propria iniziativa.
I penitenti che si ritiravano negli eremi, come pure
quelli che rimanevano nelle proprie case, erano persone religiose a
tutti gli effetti e si sottoponevano volontariamente alle leggi
canoniche emanate dalla Chiesa per i peccatori convertiti. Se, al
momento della loro conversione e ammissione all’ordine della Penitenza,
erano celibi, i penitenti dovevano rimanere tali per tutta la vita. Non
era raro il caso che un penitente celibe o una penitente nubile
accogliessero nella propria casa, rispettivamente, altri fratelli o
sorelle, per formare con essi una comunità.
Come la castità, così pure la povertà era differenziata
sia tra i penitenti celibi che tra quelli sposati. «Si hanno dunque due
categorie di penitenti sposati — scrive il Pompeis —: i proprietari e i
comunitari (più austeri). La penitenza dei proprietari consiste nel
restituire i guadagni illeciti, fare elemosine ai poveri, rinunciare al
lusso e alla vita mondana, portare l’abito penitenziale, compiere
digiuni e astinenze e recitare le ore canoniche: essi non rinunciano
tuttavia alla vita matrimoniale. I penitenti comunitari, invece, erano
molto più vicini a quelli antichi e la loro abnegazione era totale».
Questi ultimi infatti, sempre al dire del Pompei, «tornando al regime
comunitario primitivo
costituiscono ora una comunità, e cioè rinunciano ai beni in favore
della comunità penitenziale che essi costituiscono e quindi si danno in
blocco alla comunità di monaci o di chierici, per servirla e per
partecipare ai benefici spirituali della medesima».
Tutti i penitenti poi dovevano usare una veste che
denotasse il loro stato di penitenti. Tale veste era da sempre una
tunica di panno vile, senza colore, al naturale, non tinta, tra il
bianco e il nero. Espressione del Decretum
Gratiani «vestibus pullis>>
ha proprio questo significato: di
lana color fosco al naturale, non tinta, da povera gente, di un bianco
sporco, proprio il colore che San Francesco adottò per sé e per i suoi
primi compagni, il cenerino delle allodole, la veste dei poveri, mutuata
dai penitenti.
La tunica dei penitenti doveva arrivare alle ginocchia ed
era sormontata da una cappa, che terminava in punta: <<l’estremità della
cappa — leggiamo negli atti del Capitolo generale di Bologna del 1289 —
deve essere sollevata e cucita <<aliquantum in punta». Tale
caratteristica costante dell’abito merito ai penitenti e poi ai terziari
regolari, il nomignolo di <<becchetti>>, o <<beccaroli» o «trebeccanti»,
a seconda dei luoghi.
Gabriele Andreozzi
Estrazione dal Capitolo I, delle pagine 9 – 15 del volume:
IL TERZO ORDINE REGOLARE
DI SAN FRANCESCO NELLA SUA STORIA E NELLE SUE LEGGI
Editrice Franciscanum, Roma 1993
(In questo testo pubblicato
sull’Araldo di San Corrado, abbiamo omesso le note al testo)
statua del Santo, Siracusa, chiesa S.
Corrado
|
particolare
dell'affresco
nella Chiesa
di Calendasco
Venerata
Reliquia
del Patrono di
Calendasco
Pollice
della mano sinistra
|