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LA VITA DI S. CORRADO - scritta da p. Giovanni Parisi TOR
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Vita
di S. Corrado Patrono di Noto
(1290
- 1351)
Questo
grande Santo, gloria del nostro Terz'Ordine, nacque in Castrum
Calendaschi di Piacenza dalla nobile famiglia dei Confalonieri,
illustre per opere egregie e per le alte cariche in patria e
fuori.
Intorno
all'anno della sua nascita i suoi biografi non sono d'accordo,
essendocene alcuni, specie tra i più recenti, che anziché
fissarla al 1290, come noi facciamo e come è stata sempre
opinione più comune tenuta anche dal Campi e dal noto annalista
francescano Luca Wadding, l'anticipano di alcuni anni facendola
risalire al 1284, nell'intento, forse, di meglio inquadrarvi i
fatti riguardanti la sua vita.
Neppure
intorno al sito, in cui egli venne alla luce, vi era piena
concordanza, opinando alcuni che fosse nato in città, mentre la
ricerca piacentina sulle sue origini ci indica che sia nato in un
sobborgo di Piacenza ove allora la famiglia Confalonièri si
sarebbe trovata a villeggiare.
Non
conosciamo neppure con certezza i nomi dei suoi fortunati
genitori, e solo si congettura che la madre fosse del casato dei
Landi, e il padre un certo Giacomo o Jacopo Confalonieri, quello
stesso che il papa Gregorio X nominò Pretore di Orvieto nel 1272,
e che fu Podestà di Siena nel 1323 e poi anche di Bologna nel
1325.
Sappiamo
invece con tutta certezza che nella prima metà del secolo XIII
dalla sua nobile stirpe era sbocciato un olezzante fiore di santità:
la Beata Adelasia
, Badessa benedettina in S. Siro di Piacenza, la quale, morta nel
1266, ebbe venerazione e titolo di Beata. Il nostro Santo fu
probabilmente nipote, o almeno congiunto, di questa Beata.
Così
pure nulla sappiamo di preciso dei suoi primi tre lustri di vita,
ma non v'è dubbio che i suoi buoni genitori abbiano saputo
gettare nella sua anima giovanile, insieme alla cultura del tempo,
anche i semi di quelle virtù, che nel vigore degli anni avranno
poi la forza di piegarla verso le vie ardue della santità.
Giovanissimo,
sposò una ricca e virtuosa donzella, Eufrosina, figlia carissima
di Nestore Vistarini di Lodi, famiglia, anche questa, di nobile
lignaggio. In tal modo tra le gioie domestiche, il mestiere delle
armi e gli esercizi propri della nobile gioventù del suo tempo,
Corrado andava avanti nella vita felice e spensierato. Quando le
fazioni militari e i clamorosi tornei glielo permettevano, uno dei
suoi più graditi divertimenti, nei quali il più delle volte si
sentiva tutto preso e assorbito, era quello della caccia.
E
proprio da una partita di caccia ci vengono le prime notizie
storiche intorno alla sua vita. Tutti i suoi biografi, infatti ci
riferiscono, con più o meno ricchezza di particolari, che in una
di queste animate partite, dopo alcune ore di infruttuosa fatica,
non sperando ormai di far preda per essersi la selvaggina
rintanata nel fitto della macchia fra rovi e spine, dove neppure i
cani osavano penetrarvi, non trovò, di meglio che dar fuoco alla
macchia. Ma le fiamme, favorite dalle erbe secche e dal vento, si
estesero ben presto, oltre ogni previsto e inutili riuscirono gli
sforzi di soffocarle o almeno di circoscriverle invadendo anche le
campagna e i boschi vicini esse riducevano in cenere messi, case e
capanne di molti proprietari. Corrado e i suoi compagni,
sbalorditi e sconvolti, misurarono con lo sguardo gli ingenti
danni che l'incendio andava facendo, e poi, grandemente
preoccupati per le gravi conseguenze che ne sarebbero certamente
seguite, per diverse vie rientrarono nascostamente in città.
Questo
fatto deve essere accaduto, con tutta probabilità intorno
all'anno 1313, mentre Piacenza era governata da Galeazzo Visconti,
Vicario dell'Imperatore Enrico II.
Appena
giunsero alle orecchie del Visconti le notizie dell'incendio,
confermate subito dopo dalle querele dei danneggiati, sospettando
un qualche movimento politico, o assalto dei fuorusciti e
dell'opposta fazione guelfa, inviò sul posto alcuni suoi
ufficiali per verificare la portata dei danni e scovarne l'autore.
Giunti sul luogo, videro un individuo che, preso dal panico,
fuggiva; lo raggiunsero e, credutolo l'autore dell'incendio, lo
tradussero dinanzi alle autorità. La fuga, il manifesto timore,
la confusione nel rispondere ai ministri inquisitori fecero
nascere la convinzione ch'egli fosse il colpevole. Si procedette
quindi a tortura e si riuscì a strappargli la falsa confessione
d'essere egli il reo; perciò venne condannato senz'altro alla
forca.
Ora
accadde che mentre il malcapitato veniva trascinato sul luogo del
supplizio, Corrado se ne accorgesse e non potendo sopportare che
un innocente venisse condannato a posto suo, si fece innanzi e
chiese che il povero uomo venisse lasciato libero, e non riuscendo
nell'intento con la ragione lo liberò con la forza e lo mise al
sicuro nel suo stesso palazzo. Subito dopo si presentò a
Galeazzo, che trovò assai adirato, gli spiegò come era andato
l'affare dell'incendio e finì per dire che il vero colpevole era
lui e il povero condannato del tutto innocente ed estraneo al
fatto.
Si
rasserenò il Governatore e comprese che nell'accaduto non vi era
stata cattiva intenzione ma solo l'effetto di una banale
imprudenza; ma come fare a risarcire i danni causati? «Ci penserò
io, coi miei propri beni, - soggiunse Corrado - a risarcire i
danni causati. A me e non ad altri spetta riparare ogni cosa!».
Disse e mantenne. Si affrettò quindi a vendere i suoi beni e col
ricavato soddisfece ogni debito.
L'atto
eroico e generoso di Corrado, che ebbe larga ed ammirata risonanza
in tutta la città, fu degno inizio d'una eminente santità.
Da
quel giorno il nobile giovane cominciò a sentirsi attratto quasi
istintivamente verso i beni eterni del cielo e volle rispondere a
questo pressante invito della grazia divina con prontezza e
generosità. Egli ha ormai deciso di essere tutto di Dio; perciò
comunica, dopo aver lungamente pregato e meditato, l'ardua
decisione alla sua diletta compagna, che l'accoglie con pari
generosità. Giovannina si ritira nel monastero delle Povere Dame
di S. Chiara in Piacenza, mentre Corrado nel
1315, a
due anni dall'increscioso episodio dell'incendio, si avvia,
vestito da povero pellegrino, ad un vicino convento del nostro
Terz'Ordine per essere ricevuto tra i figli del Poverello
d'Assisi.
***
A
non molta distanza da Piacenza, e precisamente nel luogo ove sorge
l'attuale borgo di Calendasco, molti anni prima dei fatti del
nostro Corrado era in gran fama un convento di eremiti del Terz'Ordine,
dove, appartate dal mondo tra le preghiere, la penitenza e il
lavoro manuale, anime assetate di evangelica perfezione vivevano
nell'esercizio delle più eroiche virtù.
Il
luogo veniva detto dagli antichi storici, del «Gorgolare» e
doveva trovarsi, con tutta probabilità, proprio all'inizio del
moderno abitato.
Infatti
il molino posto poco discosto dal luogo dei Penitenti, aveva il
canale delle acque che davanti all’hospito piegava a gomito
verso destra, in direzione del borgo; le acque che facevano girare
la grande pala creavano ovviamente un salto imponente che andava a
creare quel rumore caratteristico che nel linguaggio comune
chiamiamo gorgoglio e da qui la derivazione antica che indicava il
luogo presso al Gorgolare.
Entrando,
infatti, per la via principale si scorge a sinistra una
costruzione assai antica, la quale, per quanto rimaneggiata,
ritiene ancora caratteristiche sia di antichità che di convento.
A fianco dell'ingresso, in avanti, col prospetto sulla pubblica
via, un ambiente, adibito ora ad uso profano, mostra evidente la
sagoma di una chiesetta, che gli abitanti indicano come il luogo
ove il Santo vestì l'abito religioso.
L'esistenza
di questo romitorio si può storicamente far risalire al
1280-1290. Era a capo della religiosa comunità, in tale periodo,
Fra Aristide, al quale qualche documento dell'epoca dà il titolo
di Beato, ma che certamente era uomo di grande prudenza e di
singolari virtù. Verso il 1290 come abbiamo altrove detto, venne
invitato da S. Chiara a recarsi in Montefalco, in Umbria, per
essere da lui spiritualmente diretta e per essere nel contempo
istruita intorno alla pratica della professione dei tre voti
monastici, già in uso in quella sua comunità del piacentino.
Sollecitato
dalla generosità dei signori Bennati, costruì in Montefalco il
convento di S. Rocco, che divenne uno dei più rinomati
dell'Ordine, poiché vi fu celebrato nel 1448 il primo Capitolo
Generale. Cosicché sappiamo con certezza che la comunità
religiosa del Gorgolare di Calendasco, della quale era a capo Fra
Aristide, esisteva almeno fin dal 1290.
Ora
fu appunto a questo antico e solitario romitorio del nostro Terz'Ordine
che nel 1315, dopo avere atteso per un paio d'anni alla definitiva
sistemazione dei suoi molti beni e delle gravi pendenze, scaturite
dal fatto dell'incendio, che Corrado venne umilmente a bussare per
essere accolto tra gli umili eremiti del Poverello d'Assisi.
Il
perché egli si sia precisamente diretto a questo convento del
Terz'Ordine e non ad altro luogo più remoto da Piacenza, ove
avrebbe potuto vivere in maggior nascondimento, non sapremmo
propriamente dirlo. Forse fu la grande fama di santità o la
personale conoscenza di Fra Aristide ad attirarvelo, come pure poté
essere il fatto che il romitorio gli era già familiare trovandosi
vicino al suo castello se non addirittura nell'ambito delle sue
stesse possessioni calendaschesi.
Quivi,
infatti, quasi a ridosso della chiesa parrocchiale, sorge anche al
presente il magnifico castello, che prima che il Duca Ramezio II
lo desse nel
1690 a
Fabio Perletti, appartenne ai Confalonieri per oltre due secoli.
Nel
presentarsi a Fra Aristide, tornato alla direzione di questa
comunità nel 1291 dopo la fondazione del convento di Montefalco,
Corrado gli avrà minutamente esposto i particolari della sua
delicata situazione, e il Servo di Dio, che forse conosceva già
in parte le ultime clamorose vicende dell'illustre giovane, lo
accettò senz'altro nella sua comunità, ma probabilmente dovette
passare qualche anno prima di ammetterlo all'abito religioso e ai
santi voti, fin quando, cioè, la moglie Giovannina, accolta in
Piacenza nel monastero delle Clarisse, non avrebbe raggiunta la
piena stabilità nel suo nuovo stato religioso con la professione
dei voti monastici. Di questo non breve tirocinio in mezzo a quei
ferventi figli di S. Francesco nessun particolare degno di nota ci
è stato tramandato.
Sappiamo
solo che Corrado si diede a praticare fin da tutto principio con
tanto ardore quell'aspro tenore di vita che Fra Aristide - al dire
del Campi e del P. Bordoni - nel compiere la cerimonia della sacra
vestizione, predisse la sua futura santità.
In
quell'oasi di pace e nella santa compagnia di Fra Aristide, ormai
avanti negli anni e consumato nella virtù, il nostro Santo avrà
rinvenuto certamente quanto il suo cuore aveva sempre bramato: la
più profonda solitudine, l'agio di immergersi, ritirandosi in
qualche antro vicino, nella contemplazione delle cose celesti; la
pratica della più completa povertà evangelica; il pieno
nascondimento di sè. La sua anima, sciolta ormai da tutto ciò
che la legava alla terra, poteva liberamente spiccare il volo
verso le radiose regioni dell'infinito.
***
Quantunque
Fra Corrado avesse trovato nella solitudine del Gorgolare il luogo
ideale ove appagare il suo intimo bisogno di raccoglimento e di
unione con Dio, pure si vide un giorno costretto, dopo alcuni
anni, a presentarsi al suo Superiore per chiedergli insieme alla
serafica benedizione anche la licenza di potere abbandonare quel
santo luogo per trasferirsi altrove.
Egli
vedeva ormai irrimediabilmente compromessa la sua pace interiore:
le sue straordinarie virtù, l’asprissimo tenore di vita che
aveva preso a menare, le sue frequenti estasi e rapimenti e forse
anche i non pochi prodigi che a sua intercessione si benignava
operare Dio a favore dei suoi devoti, avevano finito per suscitare
in tutta la contrada, specie in Piacenza e nella sua stessa
parentela, un rumore tale che da tutte le parti non si faceva che
accorrere a lui per consiglio e per raccomandarsi alle sue
preghiere. Tutto ciò riusciva intollerabile alla sua umiltà e al
suo amore alla solitudine, e lo spinse ad abbandonare quel santo
luogo e a dirigersi verso lontani paesi per stabilirsi in mezzo a
gente sconosciuta che nulla sapesse della nobiltà del suo casato
e delle mirabili ascensioni del suo spirito.
Messosi
in viaggio verso ignota destinazione, la prima tappa che i suoi
biografi concordemente ricordino è la città eterna, priva allora
del Sommo Pontefice per essere
la S. Sede
esule in Avignone. Ma è da credere che durante il viaggio abbia
visitato
la Verna
, tanto cara al Serafico Patriarca, e i santuari e ricordi
francescani in Assisi.
Ritemprato
in Roma il suo spirito, pregando sulle tombe dei Martiri, a Gaeta
s'imbarcò sopra un naviglio genovese in rotta verso l'Oriente.
Toccata, nella traversata, la città di Palermo, Corrado continuò
il suo viaggio verso i Luoghi Santi stabilendosi per qualche tempo
nell'isola di Malta, dove visse per più anni solitario in un
vallone di Casal-Musta.
La
tradizione della dimora del Santo in quest'isola porta ancora che
egli, scacciato dal suo romitorio ad opera di alcuni malviventi,
passasse a piedi asciutti il mare e arrivasse in tal modo a
Palermo. Questo fatto prodigioso è ricordato anche nelle vecchie
Litanie composte in suo onore dove è detto: «Sante Conrade,
qui de Milita in Siciliam sicco vestigio pertransisti, ora pro
nobis».
La Provvidenza
divina lo voleva evidentemente in Sicilia, dove
in quel tempo numerosi erano gli eremiti, specie francescani,
perché risplendesse tra questi la sua straordinaria santità e
fosse a tutti luminoso esempio di cristiana perfezione.
Visitate
le belle e monumentali chiese di Palermo e chiesto consiglio dove
gli conveniva ritirarsi a vita eremitica, gli venne indicata
la Valle
di Noto, i cui abitanti gli furono decantati come pii e
ospedalieri. Il santo pellegrino si rimise tosto in viaggio,
attraversò tutta l'Isola ma a stento poté arrivare a
destinazione per il fatto che, essendo allora tempo di guerra tra
il Re di Napoli e
la Sicilia
, fu ritenuto come una spia nascosta sotto il ruvido saio
francescano, sicché a fatica riuscì a scampare dai colpi
menatigli da male intenzionati e dal morso dei cani che i numerosi
pastori del luogo gli aizzavano contro.
A
Noto, che anticamente sorgeva assai più a nord della città
attuale e della quale, in seguito all'immane terremoto del 1693,
non ci restano oggi che informi rovine, Corrado venne accolto
nell'ospizio dei pellegrini, situato presso la chiesa di S.
Martino.
Quivi,
guadagnatasi presto la benevolenza del Superiore del pio luogo,
che era allora un certo Giovanni Mineo, venne da questi condotto a
un vicino eremo, chiamato «Le celle», e presentato a Fra
Guglielmo Buccheri, assai noto nella città per le sue rare virtù,
anche lui Terziario francescano, il quale viveva in quel luogo
vita eremitica e penitente. Lo storico incontro tra i due Santi
avvenne nel 1343 e fin da tutto principio una santa fraterna
amicizia li strinse insieme spingendoli alla vicendevole
emulazione nella pratica delle più elette virtù.
Ma
Fra Corrado non restò a lungo in compagnia di Fra Guglielmo:
l'anima sua, assetata sempre più di Dio, anelava unicamente al
silenzio e alla solitudine, mentre quel loro eremitaggio era
disturbato da troppi devoti che venivano in cerca di consiglio e
di conforto nelle loro quotidiane vicissitudini. Venne così nella
determinazione di ritirarsi in altro luogo più lontano e più
solitario.
Due
suoi amici, Nicola Vassallo e Bartolo Longo, da lui pregati, gli
indicarono una località lontana dalla città, chiamata la «Grotta
dei Pizzoni», la quale poi sarà denominata la «Grotta di S.
Corrado», per la dimora fattavi dal Santo. Prese dunque commiato
dal suo santo compagno, che immenso dispiacere provò nel vederlo
partire, e si recò nel luogo indicatogli portando con sé un
Crocifisso, una zucca per acqua e alcuni attrezzi per coltivare
qualche palmo di terra.
***
Nell'orrida
grotta dei Pizzoni Corrado vivrà fino alla sua morte una vita più
angelica che umana. Nascosto in Dio sarà continuamente immerso
nella preghiera mentre terrà soggetto il suo corpo allo spirito
con rigorosi digiuni ed aspre penitenze. Scendeva in Noto solo nei
giorni festivi per adempiere ai doveri religiosi e il venerdì per
pregare ai piedi del prodigioso Crocifisso in venerazione nella
chiesa presso il castello. Mendicava un po' di pane di porta in
porta nella stessa città di Noto e talvolta anche in Avola. Erano
queste le sole apparizioni che egli faceva in mezzo agli uomini.
Domava
con inaudito rigore gli appetiti disordinati della gola e della
carne. Raccontano a questo proposito i suoi biografi che due
volte, stando ai Pizzoni, gli vennero regalate carni di maiale e
di pollo, di cui egli aveva sentito un insolito desiderio, ma poi,
per rintuzzare tale disordinato appetito, le mise in disparte e
allora soltanto ne mangiò quand'erano diventate putride e
nauseabonde.
Altra
volta stava per gustare i frutti primaticci di un fico, da lui
stesso piantato presso la grotta, accortosi però del suo appetito
smodato se ne privò; e come se ciò non bastasse si tolse la
tonaca e nudo si avvoltolò tra i roveti e le spine, finché tutto
grondante sangue non sentì che ogni appetito di gola gli era
passato.
Il
demonio, da parte sua, non lasciava di tendergli insidie d'ogni
genere. Così una sera, sull'imbrunire, vide con sua grande
sorpresa, presso la sua grotta, un'avvenente giovane, la quale,
fingendo d'aver perduto di vista, per quei luoghi boscosi, le sue
compagne, gli chiedeva con sospiri e lagrime d'esser ricoverata
almeno fino al mattino. Il Servo di Dio, al veder la troppo
procace e nello atteggiamento e nell'aspetto, ebbe il sospetto che
si trattasse di qualche insidia diabolica. Le disse d'aspettarlo
un momento fuori, ed internatosi in un remoto angolo della grotta
si tolse la tonaca e si flagellò a sangue chiedendo umilmente al
Signore che gli facesse conoscere ciò che dovesse fare in tali
critiche circostanze. Gli vien fatto comprendere che si trattava
di suggestione e di inganno diabolico. Uscito infatti fuori della
grotta vide che la sospetta giovane era già sparita.
Il
nome di Corrado divenne presto celebre in Noto e in tutti i
dintorni non solo per lo splendore della sua virtù ma anche per
il dono dei miracoli. Passando un giorno per Malfitania, che era
il quartiere dei sarti, uno di questi invitò il santo Eremita ad
entrare in casa sua e vedere un suo figlioletto rovinato da una
voluminosa ernia. Corrado ne restò commosso, e con un semplice
segno di croce lo guarì.
Vi
era nella sua grotta una sporgenza assai ingombrante, la quale gli
impediva di crearvi un altarino. Tanto vi lavorò con mazza e
piccone che alla fine il masso si staccò. Bisognava ora spingerlo
fuori della grotta, e chiamò in aiuto alcuni giovani assai
robusti, che in un'aia lavoravano a nettar grano. Quando videro il
masso i giovani si guardarono meravigliati: cinquanta uomini non
avrebbero potuto smuoverlo: «Non bisogna scoraggiarsi - disse
loro il Santo - a confidare in Dio». In cosi dire traccia sul
masso un segno di croce e poi, lui da una parte e i giovani
dall'altra, con incredibile facilità e senza alcuno sforzo lo
trassero fuori della grotta, restando tutti stupefatti di questo
straordinario prodigio.
Ed
ecco che quando erano per allontanarsi, storditi ancora di quanto
era successo, il Santo li pregò a volere attendere un momento.
Poco dopo ne venne fuori con dei pani caldi, come se fossero stati
sfornati proprio in quel momento, e ne diede uno per ciascuno.
Ancor più sbalorditi restarono i giovani di fronte a questo nuovo
e straordinario prodigio, sapendo bene che nella grotta non vi era
forno, né farina impastata e tanto meno gente che avesse potuto
in quel momento infornare il pane.
Il
suo amico Bartolomeo Longo pensò un giorno di mandargli a mezzo
d'un suo servo, due fiaschi di buon vino. Cammin facendo il
servitore, che per il vino aveva un debole tutto particolare, pensò
che due fiaschi erano in fondo troppi per Fra Corrado, che beveva
pochissimo e che lo andava distribuendo ad altri, e ne nascose uno
sotto un cespuglio per riprenderlo nel fare ritorno a Noto. Avuto
in mano il fiasco, il santo Eremita incaricò il servitore di
ringraziare il suo padrone ma che nello stesso tempo gli facesse
sapere che dei due fiaschi solo uno ne aveva ricevuto. Non è a
dire come restasse a queste parole il servitore, che pentito
confessò la sua mancanza.
Una
combriccola di buontemponi, tutt'altro che religiosi, concertarono
tra di loro un vero tiro birbone da giocare al Santo. Lo attesero
un venerdì, quando egli scendeva dall'eremo per la consueta
visita al SS. Crocefisso, e fingendo grande devozione per lui lo
invitarono con molta insistenza a mangiar con loro del pesce. Il
Santo vi accondiscese. Ma in luogo di pesce, era di venerdì,
fecero portare a tavola non altro che cibi di grasso. Tutti
mangiarono compreso il santo ospite. Alla fine cedettero di
svillaneggiarlo e umiliarlo perché anche lui aveva mangiato carne
in un giorno di venerdì. Ma il santo rispose che era stato
invitato a mangiar pesce e soltanto pesce aveva difatti mangiato.
In così dire solleva il tovagliolo e mostra loro le lische e le
squame avanzate.
Di
fronte a tanto ed evidente prodigio quei giovinastri divennero da
quel giorno fervidi ammiratori della grande santità del Servo di
Dio.
Il
Vescovo di Siracusa, udite le meraviglie che si narravano del
santo Eremita, andò un giorno a fargli visita ai Pizzoni. Corrado
era assente e il Prelato approfittò per ispezionare attentamente
la grotta, e la trovò squallida e priva d'ogni umano conforto.
Sopraggiunse Corrado e, chiestagli con tutta umiltà la
benedizione, si trattenne con lui in santa conversazione. Venuta
l'ora del desinare il Vescovo ordinò a quelli del seguito di
metter fuori quanto avevano portato per mangiare. Poi, rivoltosi
sorridente al Santo: «E tu - gli dice - niente hai nella tua
cella da portare a tavola?». «Aspetta un po', o mio Signore -,
risponde allegro Fra Corrado - e vedrò se qualcosa vi è nascosta
in questo mio archi triclino».
Dopo
qualche istante ritorna con quattro pani bianchi e caldi, che
parevano levati dal forno proprio in quel momento. A siffatto
prodigio il Vescovo cadde in ginocchio a ricevere quel pane con
tutta riverenza come disceso dal cielo.
Negli
ultimi anni della vita di Fra Corrado serpeggiava in Sicilia
sempre più pauroso e terribile lo spettro della fame. Le continue
guerre, le fazioni sanguinose, la grave pestilenza, penetrata
nell'Isola sul finire del 1347 che aveva mietuto ovunque
innumerevoli vittime, avevano fatto sì che i campi restassero
incolti.
Ormai
neppure i ricchi, con tutto il loro danaro, riuscivano a
procurarsi di che sfamarsi, e senza numero erano i poveri infelici
che cadevano sfiniti dall'inedia sulle pubbliche vie. Dinanzi a
tanta miseria e a tanti poveri infelici, dei quali molti facevano
a lui ricorso, il Santo intensifica le sue preghiere, raddoppia le
sue aspre penitenze e si offre vittima per i peccati degli uomini,
ed ecco che invisibili mani angeliche, molto più che non fosse
fino allora avvenuto, apprestargli caldi pani per poterli sfamare.
Gli infelici si avvicendano a schiere alla sua grotta e questa
diventa l'inesauribile forno della divina Provvidenza.
Avanzato
ormai negli anni e sentendosi vicino alla morte, Fra Corrado pensò
di recarsi a Siracusa per procurarsi la gioia di rivedere ancora
una volta il suo amato Vescovo; che si era degnato di andarlo a
trovare nella sua povera grotta dei Pizzoni, e ricevere da lui la
pastorale benedizione.
Quando
giunse a Siracusa e fu nei pressi del palazzo vescovile a uno
spettacolo quanto mai meraviglioso assistettero quanti in quel
momento ebbero la fortuna di trovarsi sul posto: a sciami gli
uccelli, lieti e canori, si diedero a volteggiargli d'intorno
quasi a festeggiare l'arrivo d'un amico lungamente desiderato,
mentre non pochi di essi gli si posavano graziosamente sulle
spalle, sul capo, sulle mani in una commovente manifestazione di
gioia; proprio come quando S. Francesco d'Assisi giunse la prima
volta sulla Verna.
Il
Vescovo lo accolse paternamente; lo benedisse con grande effusione
d'affetto e, pregato, ne ascoltò anche la confessione. Il viaggio
di ritorno fu tutto infiorato da altre non poche meraviglie.
E'
anche fondata tradizione che prima di passar da questa vita,
Corrado si sia recato a Scicli a far visita al suo amato
confratello Fra Guglielmo, col quale trascorse un'intera Quaresima
in dolce spirituale intimità senza assaggiar cibo di sorta.
La
vita del giusto sulla terra è come l'aurora che sorge al mattino
e cresce nel suo splendore fino a perfetto meriggio. E Fra Corrado
era ormai arrivato, carico di virtù e di meriti, al pieno
meriggio non tanto della sua vita, quanto della sua santità, e
non aspettava che un cenno del suo celeste Signore per lasciare la
terra. E questo cenno divino non si fece molto aspettare. Il 17
febbraio del 1351, quando forse da poco aveva compiuto i suoi 61
anni di età, il Signore' sì compiacque di rivelare a questo suo
servo buono e fedele il giorno e l'ora del suo felicissimo
transito.
Col
cuore gonfio di inesprimibile gioia per il fausto annunzio, si
porta subito per l'ultima volta a Noto dal suo Confessore e Padre
spirituale. Prostrato ai suoi piedi, rinnova la sua confessione e
poi riceve dalle sue mani anche la santa Comunione, che, essendo
l'ultima della sua vita, è anche il suo celeste viatico.
Nel
prender poi da lui congedo, lo prega con grande insistenza e si fa
espressamente promettere di venire due giorni dopo, di buon
mattino, alla grotta dei Pizzoni perché avrebbe avuto estremo
bisogno della sua presenza. Il pio Sacerdote fu puntuale
all'appuntamento datogli. Al primo vederlo il Santo gli si gettò
umilmente ai piedi, implorando la sua paterna benedizione. Si
ritirò poi in un angolo della sua grotta, si pose devotamente in
ginocchio dinanzi all'immagine del Crocifisso e con le braccia e
lo sguardo rivolti in alto s'immerse in profonda preghiera. Non
dovettero passare che pochi momenti che una gran luce illuminò la
grotta effondendosi anche all'esterno e in quel medesimo istante
il Santo rese la sua bell'anima a Dio.
Il
Sacerdote, a quello straordinario splendore, si avvicina al Santo,
ancora in ginocchio e in atto di preghiera, e, credendolo rapito
in estasi, lo scuote dolcemente; ma quale non fu la sua sorpresa
quando si avvide d'aver toccato non altro che un cadavere! In
quello stesso momento, che Corrado se ne volava al cielo, le
campane di Noto e di Avola suonarono a gloria da sole senza che
mano di uomo le toccasse: era l'estremo saluto che Val di Noto
rivolgeva al suo potente intercessore e celeste Patrono!
Il
benedetto suo corpo fu religiosamente trasportato in Noto e
sepolto nella chiesa di S. Nicola. Iddio glorificò tosto il suo
Servo con numerosi e strepitosi prodigi, sicché fin d'allora fu
venerato con pubblico e solenne culto. Più tardi, e precisamente
il 12 settembre 1625, Urbano VIII con suo decreto confermava ed
estendéva a tutti gli Ordini francescani e alle Diocesi di
Siracusa e di Piacenza il culto di questo eroico figlio del
Poverello, dandogli il titolo di Santo.
San
Corrado ha reso l'anima a Dio il 19 febbraio
1351.
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