|
PREFAZIONE
Era da tempo attesa una “Vita
di S. Corrado” breve e compendiosa che senza sprofondarsi nei
labirinti della critica o scalare grattacieli dell’erudizione ne
tracciasse il profilo luminoso e ne desse una prima conoscenza a coloro
per i quali Egli è ancora un Santo da scoprire.
Volevamo toglier di mezzo le
molte “Vite” del Santo, spesso scritte male e stampate peggio.
Volevamo parlare di S. Corrado ai moderni con
linguaggio moderno, per dare all’esposizione anche il doveroso prestigio
letterario ed artistico.
Ora che questa “Vita”
viene alla luce dobbiamo essere grati a D. Salvatore Guastella, mio
valido cooperatore in Cattedrale, per il decisivo concorso dato alla
divulgazione di una preziosa esistenza che, per la divina spontaneità
della grazia che arricchisce e feconda la Chiesa, si inserisce nel
fervido moto di Apostolato e Santità dei secoli XIII e XIV, i secoli di
Dante, di Francesco d’Assisi e di Caterina da Siena.
Evidentemente D. Guastella non
ha voluto stendere una “Vita”
del Santo nel senso rigoroso della parola, ma illuminarne i lati più
rilevanti: molto meno ha voluto portare contributi nuovi alla già ampia
biografia e alle questioni che da secoli restano ancora avvolte nelle
ombre. S. Corrado è un santo di cui è più facile trovare lodi che dati
biografici. Non una “Vita”
carica di erudizione storico-ascetica dunque, ma una esposizione agile,
sobria, perfino frettolosa, con lo scopo di ravvivare e presentare in
efficace rilievo la figura dell’insigne Eremita e avvicinarla alle anime
del nostro tempo.
Questo lo scopo, che riteniamo raggiunto.
Voglia il Cielo che il libro destinato ad andare più
facilmente per le mani di tutti, possa tutti animare all’imitazione del
Santo e quindi ad una vita più cristiana e perfetta.
Mons. Nunzio Zappulla
Parroco della Cattedrale
IL CAVALIERE
I Santi sono l’opera sovrana di Dio, che lo rivelano al mondo e ne
annunziano e dilatano la gloria.
S. Corrado Confalonieri lo prova in maniera luminosa. Cogliamo i
tratti più caratteristici della sua vita, ad edificazione della
nostra devozione per Lui nostro Celeste Patrono.
Nasce a Piacenza, in Emilia, dalla illustre famiglia dei
Confalonieri verso la fine del sec. XIII, tra il 1284 e il 1290.
Secondo l’uso del tempo e la sua condizione, cresce Corrado
appassionato delle armi e si diletta assai di caccia. Carattere
retto e gioviale il suo, che lo fa amico sincero e cittadino
integerrimo. Si impone all’ammirazione di tutti per il suo amore
alla giustizia. Nelle malaugurate lotte intestine di allora, i
cittadini dei vari Comuni d’Italia si dividevano in Guelfi e
Ghibellini. Corrado è di parte Guelfa, ma i suoi nemici politici non
lo infastidiscono ne lo espellono in esilio come elemento
indesiderato: la sua bontà invero è nota a tutti: i poverelli non
ricorrono invano alla sua carità.
Corrado è un credente: ma iddio ha dei grandi disegni su di lui. I
Santi sotto l’azione della grazia di Dio si preparano all’alta
missione cui sono destinati, poiché la santità è grandezza e solo le
cose piccole non si preparano. Attraverso i più svariati avvenimenti
domestici e sociali, lieti e dolorosi, con lavorio lento e
misterioso, Dio va maturando questo generoso cavaliere piacentino
per l’istante solenne e decisivo in cui si slancerà con tutto
l’impeto delle sue energie nelle vie della santità.
In Corrado insomma si tratta di distruggere in un colpo l’immensa
distanza che corre tra il cristiano alla buona e l’eroe cristiano,
tra il pellegrino pedestre e l’aquila dal volo sublime, tra Corrado
l’onesto e Corrado il Santo!
Richiamiamo il fatidico incendio. Siamo nei dintorni di Piacenza e
precisamente nella boscaglia dove Corrado caccia lietamente con una
brigata di amici. Passano ore di infruttuosa fatica,perché il luogo
è selvoso e pieno di cespugli, e la selvaggina è appiattata in densa
macchia inaccessibile ai cani.
Per subitaneo pensiero proprio o imprudente suggerimento dei
compagni, Corrado vi fa appiccare il fuoco per scovare gli animali
nascosti. Ma levatosi un forte vento, il fuoco si dilata ben presto.
Riuscito vano ogni tentativo o sforzo per spegnerlo o circoscriverlo
almeno, Corrado e gli altri, afflitti e mesti, se ne tornano per vie
diverse alla città. I nembi di fumo e il crepitio altissimo delle
fiamme chiamano tutti gli abitanti fuori delle mura. L’opera
dell’uomo è impotente a isolare l’incendio; e in breve il bosco, le
case limitrofe, i vicini campi biondeggianti di messi, tutto è in
preda del fuoco.
Era allora Governatore di Piacenza Galeazzo Visconti, in qualità di
Vicario imperiale. Il fatto accadde probabilmente nell’estate del
1313. Pare che l’incendio, dovuto involontariamente alla giovanile
imprudenza di Corrado Confalonieri, accadesse nel tempo che Galeazzo
sta in timore di qualche movimento ed assalto dei Guelfi in esilio.
Perciò al primo avviso datogli, il Governatore sospetta di uno
stratagemma militare per attirare le milizie fuori della città o
almeno che sia un segnale ai Guelfi di dentro. Manda i suoi uomini,
e sorprendono un tale scampato miracolosamente a quell’uragano di
fuoco, che fugge per l’aperta campagna. La fuga, il manifesto
timore, il pallore, la confusione nel rispondere e l’incoerenza
delle sue parole sono o sembrano indizi sufficienti, giusta gli usi
d’allora, perché si proceda all’arresto e alla tortura. Questo
barbaro procedimento, che non di rado giovava ai rei più robusti ed
astuti per purgare, come dicevano, gli indizi che erano contro di
loro, non serve questa volta che ad estorcere una falsa accusa:
perché l’infelice si dice colpevole dell’incendio. Perciò viene
condannato alla forca. Il reo, scortato, passa sotto al palazzo dei
Confalonieri. Corrado, di cui nessuno sospetta, informato dell’esito
di quel processo, non può soffrire nell’animo suo cristiano e nobile
che un innocente sconti la pena della imprudenza sua.
Coll’animo agitato lo contempla dal balcone. Non regge più a quella
vista, cede all’impulso del suo nobile cuore, e benché non tenuto ad
accusare se stesso, scende precipitosamente le scale, si apre la via
tra la folla, arresta il corte, e grida forte: “Slegate
quell’innocente, restituitelo alla desolata famiglia. L’autore
involontario del grande disastro è qui: sono io!”. Quel grido
scoppia in mezzo all’attonita folla come un fulmine, e in mezzo ad
un sacro silenzio si svolge allora una scena sublime tra gli agenti
della forza che hanno ricevuto ordini perentorii e Corrado che vuole
liberare l’innocente. Alla fine, dopo un lungo e aspro dibattito,
l’eroico giovane vince la grande partita.
L’innocente è già in mano di Corrado che per tutelarne meglio la
libertà e la vita lo custodisce nella propria casa. Va quindi al
palazzo del Vicario imperiale, ove prima di lui sono già tornati gli
esecutori. Trova Galeazzo Visconti molto irato. Ma Corrado con
franchezza e insieme con rispetto e prudenza dice non aver agito per
astio contro il magistrato e la giustizia, ne intende sottrarre un
imputato alla pena. Perciò lo tiene custodito in casa sua agli
ordini dell’autorità. Ha agito così per toglierlo lì per lì agli
esecutori, per acquistar tempo da mettere in chiaro l’innocenza di
quell’uomo, e risparmiare al magistrato un rimorso tardivo e
infruttuoso d’essersi ingannato nel giudicarlo. E narrando per filo
e per segno quanto gli è accaduto nella partita di caccia, sui
accusa chiaramente di imprudenza e prova l’innocenza di
quell’innocente malcapitato. Galeazzo non lo condanna, in quanto
Corrado è gentiluomo; e anche perché Corrado si spoglia
volontariamente di tutti i suoi beni per risarcire i danni.
L’addio
Dinanzi a una sventura domestica come questa, il
cristiano degenere avrebbe rivolto contro la Provvidenza la lingua
blasfema, ma Corrado, nato a grandi cose, valica i confini, troppo
angusti per lui, della rassegnazione cristiana.
La sventura scrutata da lui col suo sguardo di aquila,
gli impenna le ali a voli eccelsi. Come il genio trova negli incidenti
della vita, che passano come semplici fenomeni sotto lo sguardo
dell’uomo ordinario, il substrato della grande filosofia, così Corrado
in questo rovescio di fortuna trova il punto di appoggio per elevarsi ai
principii generatori della grande santità. L’instabilità delle cose
umane, la fragilità della ricchezza legata ad un filo sottilissimo,
suscettibile di infrangersi al più piccolo urto, la facilità con la
quale le posizioni sociali crollano in un’ora sola, le gioie più ambite
che cadono infrante nel momento più bello, come i fantasmi d’un sogno
dorato, il nulla delle lusinghe della vita, la grandezza delle cose
eterne, sono verità tutte che in quell’ora decisiva della sua vita
passano dinanzi alla mente di Corrado con la forza dell’evidenza. Giura
con tutte le energie del suo essere di volere vivere unicamente per Dio.
Per un cuore magnanimo, per un
spirito risoluto come quello di Corrado, risolvere è comunicare, dire
è fare! Quest’istante è solenne. La forza
arcana della grazia lo ha mutato. E’ cosa mirabile che il giovane
Confalonieri, rampollo di una delle più illustri famiglie lombarde,
ricco di censo, nel pieno rigoglio dei suoi 29 anni, con la visione
seducente delle cariche brillanti alle quali lo chiamano i suoi titoli,
l’abilità personale, nonché il potente partito che lo fiancheggia,
erudito da una sventura domestica, volga repentinamente l’animo alle
cose dell’eternità.
L’ingresso di Corrado nel Terz’Ordine è segnato dai
cronisti francescani all’anno 1315: e supponendolo anche avvenuto nei
primi mesi di quell’anno, si vede che dal fatto dell’incendio è
trascorso tempo sufficiente e alle operazioni occorrenti per il
risarcimento dei danni e alla maturazione del disegno di abbandonare il
mondo. Non è stata dunque un’affrettata risoluzione presa in un momento
di fervore inconsulto, ma una fedele e tranquilla corrispondenza alla
divina chiamata. E tutto il resto della non breve vita eremitica di San
Corrado lo comprova.
Il Pellegrino
Eccolo sulla via dell’esilio. Solo, sconosciuto,
senz’altra previsione che una fiducia illimitata in Colui che veste il
giglio del campo e nutre gli uccelli dell’aria, chiuso in un ruvido saio
e appoggiato il suo bordone egli pellegrina alla volta di Roma, ignaro
della nuova Patria alla quale per vie misteriose la Provvidenza lo
guida. Ma a Roma non vede il papa che si trova esula ad Avignone. Visita
le Basiliche e i luoghi santificati dal sangue e dalle reliquie dei
martiri, e prosegue il cammino.
Non è per desiderio di novità che salpa poi per la
Sicilia, l’isola del sole, della poesia e degli incanti, ma anche dei
santi Eremiti. Egli va in cerca di un punto lontano, ermo e solitario,
dove gli sia consentito di vivere come fuori dal mondo con l’anima tutta
in Dio e nella contemplazione delle cose celesti. Sicchè dei 36 anni di
vita penitente, egli passa in Sicilia soltanto gli ultimi, quando
consumato nella santità possiede il dono dei miracoli.
Gli viene indicata la Val di Noto, e senz’altro vi si
incammina. Ma l’isola, sconvolta dalla furia della guerra con Napoli,
vede nello straniero pellegrino un emissario del nemico, e non c’è
sopruso, insulto e ludibrio che gli venga risparmiato; ed egli, solo in
terra straniera, senza un parente, un amico, non solo conserva la calma
solenne di chi guarda dall’alto tutti gli avvenimenti della vita, ma si
osserva da tutti con meraviglia che in lui l’odio infiamma l’amore, gli
oltraggi affrettano i benefici, il dolore genera la gioia. Volendo
passare da Palazzolo, alcuni cattivi l’accolgono malvolentieri e gli
aizzano i cani appresso. Giunge Corrado affranto ma salvo, a Noto.
Questa città non è come le altre. Qui non si sente straniero, e vi entra
col cuore in tumulto, come un esule che rivede la Patria, come un padre
che torna in mezzo ai suoi figli. Siamo nel 1343.
All’ospizio dei pellegrini detto
di San Martino, trova alloggio e serve anche gli ammalati mendicando
quanto basta a mantenersi in vita. L sua modestia e bontà gli concilia
la stima di Giovanni Mineo che ha cura dell’Ospizio. E vedendolo
desideroso di solitudine, lo consiglia di andare da Fra
Guglielmo Buccheri alle “Celle”, presso la
chiesa del SS. Crocifisso, in prossimità del castello di Noto.
Fra Guglielmo, notinese, era vissuto tra gli Ufficiali
della corte di Federico III d’Aragona: sposato ebbe un figlio di nome
Pietro. Va Guglielmo un giorno col Re al bosco dell’Etna a caccia.
Azzannato da un cinghiale, che scovato del Re si era precipitato sul
cavallo e su di lui, ne rimane malconcio e in fin di vita. Trasportato a
Catania, Sant’Agata in sogno gli promette la guarigione se, lasciando di
servire il re della terra, vorrà dedicarsi al servizio del Re del cielo.
Federico III a malincuore gli permette di lasciare la sua corte,
donandogli una forte somma in oro, che Guglielmo dona assieme ai suoi
abiti ai poveri, e le “Celle” del castello di Noto, dove vive santamente
da Eremita, finché si trasferisce poi per volere celeste a Scicli a
ravvivare l’antica fede per Maria SS. Addolorata. Muore novantenne nel
1404. Paolo III lo beatifica nel 1537, divenendo così patrono di Scicli.
L’Anacoreta
Qui comincia il periodo che chiameremo”classico” della
vita di San Corrado. E’ tutta una serie di meraviglie, che ti riempiono
l’anima e ti esaltano. Fra Guglielmo lo accoglie fraternamente, gli
assegna una povera cella presso la sua e un po’ di fieno per letto. Di
ciò Corrado è contentissimo, e nel tempo che ivi passa stringe tale
intimità con Guglielmo, al quale torna poi vantaggiosa consentendogli di
apprendere alla scuola di Corrado il segreto della vera santità. E
Scicli deve il suo fulgido astro al Sole di Noto.
Intanto i fiumi di sapienza
celeste che fluiscono dal suo labbro, nonché lo splendore dei suoi
esempi e dei suoi portenti lo hanno fatto conoscere nella sua vera luce.
L’anima del popolo che intuisce lo ha già caratterizzato. Egli non è più
il povero pellegrino, nemmeno il compagno
e discepolo di Guglielmo, ma il Santo.
S’accresce pertanto il numero dei visitatori e
ammiratori. Pietro Buccheri, il figlio di Guglielmo come alcuni altri
dediti al mondo, on vede di buon occhio il nuovo compagno del padre, né
che egli ne segua l’esempio in una forma di vita austera e penitente.
Quest’animosità non turba Corrado, bensì dispiace all’umiltà sua
l’ossequio degli altri; e gli pesano tante visite che gli interrompono
le meditazioni e le preghiere. Egli brama la solitudine e anela a
maggior austerità ed asprezza di vita. Ed eccolo fuggire inosservato
nella famosa grotta dei Pizzoni, la quale passerà alla posterità con il
nome di “Grotta di S. Corrado”. Essa s’interna ai piedi di un’aspra
roccia che sembra fatta per predisporre lo spirito ad inabissarsi nella
meditazione delle cose eterne. Lasciamo che Corrado la santifichi con la
sua presenza e l’illustri coi suoi portenti, e il ruvido speco si
trasformerà in uno dei santuari più famosi dell’Italia, meta di
innumerevoli pellegrinaggi. Tutto contento vi passa in preghiera e
digiuno i primi due giorni: poi va ad elemosinare un po’ di pane e torna
alla grotta. Questa da allora in poi è la sua vita. Viene a Noto per
l’adempimento dei doveri di religione; ogni venerdì va alla chiesa del
Crocifisso. Le sue giornate trascorre solitario al suo romitaggio nella
orazione, nelle penitenze e nel lavoro. L’unione con Dio è l’aspirazione
della sua vita.
Appende alla parete della caverna un crocifisso; per
letto, tavolo, sedile gli basta il piano sassoso della grotta. Per
suppellettili, una zucca seccata per tenervi un po’ d’acqua e pochi
arnesi per andar coltivando quel terreno deserto. Lo scarso pane lo
chiede in elemosina il sabato a Noto ed Avola. Oh, se quella grotta
potesse parlare, quali meraviglie non si svelerebbero al nostro sguardo!
Noi vedremmo Corrado nel’ambiente divino delle estasi, delle visioni di
cui il cielo lo favorisce: nella ruvida grotta teatro di tante
meraviglie, noi ammireremmo un riflesso del cielo, un prolungamento del
Paradiso!
Bartolo Longo, notaro, vuol mandare all’amico Corrado
un paio di fiaschi di vino. Il servo cammin facendo pensa tra sé che
all’eremita può bastarne uno; l’altro lo nasconde tra i cespugli. “Dov’è
l’altro fiasco che hai nascosto?” gli domanda scrutandolo negli occhi
fra Corrado. “Bada – replicò poi – che una serpe vi sta sopra: che non
ti morda quando lo pigli!”.
Andando un devoto a visitarlo è sorpreso da repentino
temporale. Si nasconde in una grotta e vi si addormenta. Fra Corrado
vede in spirito l’imminente pericolo di colui e, pregando và a
svegliarlo. Dopo pochi momenti un fulmine colpisce la grotta: l’avrebbe
incenerito.
Nicola Vassallo vuol mandare al buon eremita una forma
di cacio, ma la moglie sostiene sia sufficiente metà. Il Vassallo
insiste, e il figlio si presenta alla grotta con la forma intera. Fra
Corrado divide il formaggio dicendo al giovanetto: “Questa metà è di tua
madre e questa di Gesù Cristo”. Pensa una volta l’Anacoreta di staccare
dalla sua grotta un masso ingombrante, e chiama in aiuto dei giovani.
Quando questi vedono di quale pietra si tratta gli dicono che è
impossibile a sì poche braccia di smuoverlo. Ma Fra Corrado fiducioso in
Dio, fatto il segno della croce, li prega di provar visi; ed egli da una
parte, gli altri dall’altra vi riescono con mirabile facilità. Rientrato
nel’antro, nel quale essi hanno visto non esservi nulla, ne porta fuori
pani caldi, che distribuisce. I giovani restano attoniti al doppio
prodigio. Ed uno di essi anzi vuole ad ogni costo rimanere col Santo
come eremita, ma non sa poi perseverare nel buon proposito.
“Padre – lo prega un giorno un amico – io voglio che
oggi veniate a mangiare a casa mia, ché ho comperato dei pesci; vi prego
per carità di venire” . E il Santo: “Dio rimeriti la vostra anima per
tale carità; ma non fa bisogno per oggi”. Alle insistenze gli dice che i
pesci da lui comperati sono stati già preda del gatto. L’amico tornato a
casa trova appunto per ciò in collera la moglie.
IL SANTO
Vediamo ora quale travaglio assiduo costi al nostro
Santo la virtù, e soprattutto la virtù in grado eroico. Viene anche per
lui la prova che, come crogiolo, lo purifica e rinsalda nel bene. Per
due volte gli hanno regalato carne suina e di pollo: non solo non se ne
ciba, ma per mortificare più a lungo la propria gola l’appende ad un
uncino, che è nel mezzo della grotta. Dopo giorni i vermi l’hanno
corrosa: la mette fuori della cella e dice forte a sé stesso: “O corpo,
mangia la tua carne, e tu verme, mangia i tuoi vermi”.
Ma lo spirito del male non si dà per vinto e torna a
dargli battaglia tanto che, per correggere una tentazione di gola per
frutta primaticcia di fico, non dubita Fra Corrado, emulo di S.
Benedetto, di avvoltolarsi ignudo tra i rovi. Il demonio scornato pensa
se può ingannarlo in altro modo. Ma il Santo vigile atleta di Cristo,
previene ogni subdola suggestione del maligno, imponendosi penitenze
volontarie. Cammina scalzo con la tunica sulle carni. Si accosta ai
Sacramenti. Suo confessore è il cappellano di S. Pietro il Nuovo, che
scrisse la sua vita. Per evitare concorso di popolo, va a ricevere la
Santa Comunione in città di buon mattino. In tempo di Quaresima non
tocca pane, ma si ciba di legumi e acqua.
Un operaio netino, ricevendo visita dal Santo suo
amico, gli bacia la destra e dice: “Compare insegnatemi qualche
preghiera”. E Fra Corrado gli insegna la recita del Padre nostro e
dell’Ave Maria.
Non c’è santità anche celebre che non trovi increduli
e contraddittori, e vada esente dall’odio degli iniqui. Un venerdì,
essendo come di consueto sceso a Noto, è con simulata devozione invitato
da alcuni buontemponi a mangiare con loro un piatto di pesci. Accetta il
Santo Eremita, ma la vivanda abilmente camuffata non è altro che carne
di maiale. Finito il pranzo quei disgraziati si mettono a schernirlo
perché ha mangiato carne di venerdì. “No!” risponde pacatamente il
Santo; e alzato il tovagliolo con grande loro stupore mostra le spine e
le lische di pesce rimaste.
Oltraggiato, vilipeso, bastonato
a sangue da una masnada di giovani brutali, non pago di ringraziarli e
di regalar loro pane manipolato da mano angelica, è il solo che li
difende in giudizio per sottrarli, se gli riesce, ai rigori della legge
e all’ira del popolo. La fama della santità giunse alle orecchie del
vescovo di Siracusa, mons. Giacomo Orsini. Vuole egli rendersi
personalmente conto della virtù dell’umile Eremita dei
Pizzoni e dei prodigi da lui
operati, e si reca un giorno a trovarlo nella sua solitudine. Il Santo
non c’è, ed egli visita accuratamente la grotta d i luoghi circostanti.
Giunge poi Fra Corrado. Dopo avere lungamente con lui conversato, il
Vescovo lo invita a pranzare insieme. Il buon Eremita accetta, ma
ritiratosi prima alcuni istanti nella sua cella, torna poco dopo con
quattro bianche e calde focacce. Alle meraviglie del prelato, Fra
Corrado si schermisce dicendo: “Non sono quello che voi pensate, ché io
sono peccatore come gli altri. Questa cosa ha fatto Dio per sua grazia”.
IL TAUMATURGO
Piacque a Dio di far conoscere la santità del suo
Servo fedele dandogli il dono dei miracoli. Come abbiamo visto, il Santo
ringrazia i devoti visitatori, onora il suo vescovo ed i sacerdoti e
perdona chi l’ha offeso, donando il pane miracoloso. Questa produzione
prodigiosa di pane si ripete altre volte, specialmente in occasione
della durissima e lunga carestia del 1349. “O padre – lo supplica uno
stormo di ragazzetti laceri e affamati – donaci un poco di pane”. Il
Santo che in quel frangente tutti accoglie e rifocilla, risponde
commosso: “Sì figliuoli se a Dio piace. Aspettate qui”. Entra nella
grotta, si mette in preghiera e subito gli arriva pane dal cielo, e a
ciascuno di quegli innocenti dà una pagnotta calda. E’ un continuo
chiedere e ottenere. Antonio Sessa, un giorno che Fra Corrado esce dalla
chiesa del Crocifisso, lo invita a pranzo. A tavola, il Sessa è preso da
acuti dolori. Il Santo lo anima a pazienza e si raccoglie in orazione.
L’amico si sente guarito. La ricompensa che chiede il frate è il
permesso di potersi cibare a modo suo: di solo pane e poche noci. Nel
tornare alla sua grotta, guarisce col semplice segno di croce da un
grave attacco di ernia il figlio di un sarto, nel quartiere Malfitania.
Corrado, prima che il padre si accorga della guarigione del figlio, si
allontana. Ma la fama del prodigio si divulga in un baleno e molti
erniosi e malati ricorrono all’intercessione del Santo Eremita. Anche
Pietro Buccheri, il figlio di Fra Guglielmo, che l’aveva tacciato di
“ipocrita”, convinto dal padre, ricorre al Santo per essere guarito da
febbri perniciose.
Vuole Fra Corrado ricambiare la visita al Vescovo di
Siracusa, e vi si reca. Dinanzi all’Episcopio uno stormo di uccelli,
garrendo, gli vola attorno. Quel lieto saluto degli uccelli a Corrado si
replica altra volta in vicinanza di Avola: un viandante ne sparge la
voce ad Avola e a Noto.
Un giorno di digiuno, un suo devoto gli manda con il
figlio un po’ di legumi. Nelle vicinanze della grotta però gli appare il
demonio in sembianze umane, che lo svia per una rupe scoscesa e isolata:
e dispare. Vistosi sul precipizio il piccolo, spaventato grida forte.
Fra Corrado, che sta pregando, vede in ispirito il fanciullo ingannato
dal demonio, corre subito, e trovatolo che piange, lo guida sino alla
valle e alla sua grotta.
IL CELESTE PATRONO
Giunge il tempo che Corrado, compiuto il corso di sua
vita mortale, deve passare al premio eterno. Ne ha intero e sicuro
avviso. Per cui si reca per l’ultima volta a Noto per ricevere i
sacramenti e prega il confessore suo a venire dopo due giorni alla
grotta. Così fa il sacerdote. Corrado gli svela l’imminente suo
trapasso, gli preannunzia che sarebbe sorto conflitto tra quelli di Noto
e Avola per avere il suo corpo, ma che non si sarebbe sparso sangue; e
gli chiede sepoltura nella chiesa Madre di S. Nicola a Noto. Detto
questo si pone in ginocchio e prega. Fissa le pupille in un punto del
cielo. E’ estasi? Così crede il confessore che ha la sorte invidiabile
di assistere a quella scena sublime. Si avvicina, compreso dal più sacro
rispetto; lo palpa, lo chiama con voce commossa: il cuore non batte più.
E’ il 19 febbraio dell’anno di grazia 1351.
Le campane di Noto e di Avola
suonano da sole a distesa. E’ morto Fra Guglielmo, l’eremita delle
“celle”? Disingannati tutti corrono ai
Pizzoni
dove infatti trovano il corpo del santo
Anacoreta in ginocchio e per primi lo venerano. Volendolo portare subito
a Noto, si avvera tra di loro e quelli di Avola, che intanto
sopraggiungono, il conflitto predetto dal Santo, conflitto che non
finisce in strage, per manifesta sua protezione. Durante il tragitto
sono tante le guarigioni di storpi, erniosi, ciechi e di vari malati,
che le autorità si affrettano a fare regolare processo, interrogando
testimoni e miracolati.
Il Sommo Pontefice Leone X nel 1515 permette che ogni
anno il 19 febbraio se ne celebri la festa! Paolo III la estende alla
Sicilia; Urbano VIII il 12 settembre 1625 concede a tutti gli ordini
francescani di celebrare la festa di S. Corrado con Messa e Ufficio
proprio.
19 febbraio 1351! Il Santo partendo ci lascia uno
splendido solco di luce che ne perpetua nei secoli la memoria. Egli vive
sempre con noi nelle sue virtù, nel suo eroismo, nei suoi portenti. Da
quel giorno la storia di Noto si confonde con quella di S. Corrado. E’
una gara incessante tra protetti e Patrono. Basterà il suo nome e il
fulgore dei suoi prodigi a mantenere la Fede sempre viva negli animi. I
Netini, in qualunque punto della terra vadano, lo portano con sé e
ricorrono a Lui in ogni bisogno. E certamente il giorno in cui il
notinese perdesse la fede, cesserebbe di essere figlio di S. Corrado e
di Noto.
La protezione speciale del Santo per la città di cui è
Patrono ha continuato a manifestarsi attraverso i secoli e la attestano
i solenni atti della popolazione riconoscente. Fra questi ricordiamo la
processione di ringraziamento decretata dopo la cessazione del colera
nel 1855; il voto fatto dalla Città nel 1943, coll’approvazione
dell’autorità religiosa, del digiuno nella vigilia della festa e
dell’offerta annuale di un cero, il 19 febbraio, se la città di Noto
venisse risparmiata dai bombardamenti durante la guerra, voto che si
adempie ogni anno con apposita suggestiva cerimonia.
Il suo corpo, composto in una artistica Arca d’argento
nella Cattedrale di Noto, è venerato per continui miracoli. La mano
sinistra con parte del braccio fu donata dalla cittadinanza netina alla
Cattedrale della sua natia Piacenza.
Concludendo, una sola cosa ci permettiamo rammentare
ai devoti di S. Corrado Confalonieri.
Il migliore modo di onorarLo e propiziarsene il
patrocinio è di imitare le virtù, fuggire il peccato, essere buoni
amando Dio e il prossimo, esercitarsi nella pazienza e pensare che non
siamo creati per la terra, ma per il cielo.
D. Salvatore Guastella
Noto, 1955
Reliquia del Santo Braccio, Noto
|
Urna del Santo
processione di un secola fa
Urna d'Argento
contente il
Corpo del Santo
Armadi con
ex-voto
nel Museo
presso il
Santuario
Fuori le Mura
a Noto
La Grotta nel
Santuario
nella foto: l'Autore di questa
VITA del Santo Eremita,
mons. Salvatore Guastella,
la scrisse nel 1955
|